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Racconti dall’Etiopia

La prima fase del nostro progetto in Etiopia è finita, tra mille peripezie miste ad altrettante soddisfazioni. Sono stati due mesi di intenso allenamento al non attaccamento e alla pazienza, spesi soprattutto nel villaggio di Wuchale, nella regione degli Amara. Qui abbiamo imparato le nostre prime parole di amarico, la lingua locale dalle molteplici origini, ci siamo abituate al cibo locale, l’enjera, da mangiare rigorosamente con le mani, ed abbiamo stretto le prime amicizie con gente del posto: insegnanti, bambini, vicini di casa e qualche intrepido passante.

Camminare per la strada principale, una delle rare asfaltate in tutto il nord Etiopia, è come camminare con un faro puntato addosso: le persone ci osservano, ci chiamano farenji (straniero), i bambini corrono per sfiorarci e scappare via; l’Africa, per noi che non ci eravamo mai state, si è trasformata da immaginario confuso in realtà concreta. Una realtà inizialmente sconosciuta e spaesante. Superata la prima settimana, però, ci rendiamo conto che dietro le parole degli abesha (nativi etiopi) gridate a gran voce, per noi incomprensibili e un po’ spaventose, si nascondono sempre… inviti: ad entrare nelle loro case, a bere un caffè, a condividere un’enjera, a raccontare da dove veniamo, a bere un sorso di tej, idromele fatto in casa, o sfogliare album di foto di famiglia. Così abbiamo scoperto, prima ancora di metterci al lavoro, la forte cultura dell’accoglienza che caratterizza questo popolo. Ci siamo sedute davanti a diversi braceri a sorseggiare il caffè preparato secondo la tradizionale cerimonia, osservando e registrando nella nostra mente ogni passaggio di questo rito: la tostatura dei chicchi, la cottura, l’accensione dell’incenso, la preparazione del companatico (che, con nostra grande sorpresa, consiste in pane e…pop corn!) e la benedizione della donna che cura tutto questo processo, anche definita “La regina del caffè”.

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La cerimonia del caffè è il simbolo della tradizione etiopica ed è un’occasione di convivialità, discussione sia di scottanti temi politici che di pettegolezzi di paese, dimostrazione di ospitalità per stranieri o amici di vecchia data. Questo è quello che ci hanno raccontato a questo proposito i partecipanti ai nostri laboratori, con i quali abbiamo deciso di partire a lavorare proprio da qui, dalla loro cultura,  per creare le basi di un gruppo solido e passare loro delle competenze teatrali semplici, utili a a costruire dei quadri viventi sul tema della migrazione irregolare.

Portare la nostra metodologia in una cultura diversa e con il filtro di ben due traduzioni (la nostra in inglese e quella del nostro social worker in amarico) ci ha obbligate ad affrontare difficoltà che sono ardue da immaginare prima di partire: come riuscire a fare statue viventi, in un mondo dove non esiste neanche il concetto di statua?

Come riuscire ad ottenere opinioni personali da un popolo che indica nell’obbedienza -e nel conformismo- una virtù? La cultura politica etiopica è da sempre contraddistinta da sistemi di governo che non hanno mai promosso l’autonomia di pensiero come valore fondante.

Come riuscire ad entrare in empatia con gli utenti dei nostri laboratori – 80 persone per 4 laboratori in due villaggi coinvolti? e, ancor prima, come riuscire a comprendere il contesto socioculturale in modo appropriato e funzionale? Abbiamo dovuto immergerci a 360° in un mondo a noi alieno alla scoperta delle chiavi di lettura  che ci dessero la possibilità di comprendere tutto ciò che accadeva attorno a noi.

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Seppur ogni gruppo abbia passato con noi solo una settimana, l’esperienza di un laboratorio di SCT e il confronto su temi forti spesso legati a storie personali sulla migrazione irregolare, ha contribuito alla creazione di legami intensi tra i partecipanti. Il loro impegno nel costruire tutti insieme la Festa di Comunità ne è stata la prova.

Gli eventi finali – la parata e le Feste di Comunità – sono stati momenti  ricchi di scambi e divertimento: volti, musica, incontri inaspettati, balli improvvisati sulla soglia delle case, bambini curiosi e urlanti, profumo di berberè, sorsi di tej, danze popolari, caffè fumante, bracieri pieni d’incenso e pane condiviso. Anche noi abbiamo offerto umilmente un dono, di ciò che possiamo e sappiamo fare: una breve performance di acrobatica ed il canto… del tutto improvvisata!

A Bistima, a causa dei diversi ostacoli burocratici, abbiamo avuto molto meno tempo per fare tutto: in una sola settimana siamo riuscite a portarci a casa due laboratori ed un evento finale che pur non essendo organizzato è miracolosamente ben riuscito.

Gli Etiopi si divertono a renderti uno di loro e più ti mostri curioso, più ti insegnano, tra una risata ed una manciata di pop corn. Così, il nostro ultimo giorno, durante la festa di comunità, ci hanno incoronate regine del caffè, con il compito di ricevere la benedizione sulla bevanda fumante davanti a noi. Fatima, intanto, ci suggeriva le giuste parole da dire mentre Amed, un capocomico mancato, benediceva il caffè con il sorriso sotto i baffi.

Dopo aver bevuto e mangiato, ci siamo abbandonate ad un bagno di abbracci. Ci hanno chiesto: “non dimenticateci”. Anche se volessimo, dimenticarci di loro e di ciò che l’Africa e tutte le sue contraddizioni ci ha insegnato fino adesso, sarebbe un’impresa.