Durante la Giornata Internazionale di Studio “Teatro, Salute e Disuguaglianze”, Norma Daykin, Professoressa presso il Centro di ricerca “Arti e Benessere” dell’Università di Winchester e musicista, ha introdotto alcuni studi sull’impatto della musica in diversi contesti sociali, dal carcere agli gli ospedali psichiatrici. Solo negli ultimi anni si inizia ad apprezzare il valore scientifico delle ricerche che studiano l’impatto delle arti performative in contesti di disagio. Norma Daykin sottolinea che, se parliamo di risultati attesi, gli interventi che promuovono percorsi formativi di teatro o di musica coinvolgono cinque differenti sfere: quella personale (identità), quella fisiologica (ad esempio la riduzione dello stress), quella artistica (miglioramenti nella capacità di usare il corpo e la voce), quella organizzativa (miglioramenti nella capacità di lavorare in gruppo) e quella sociale e relazionale.
La docente ha descritto un progetto di sei settimane che ha coinvolto un gruppo di ragazzi reclusi in carcere all’interno di un laboratorio di musica live: i musicisti, esperti di musica folk e jazz, hanno introdotto i giovani all’uso di alcuni strumenti (sassofono, percussioni, xilofono) e dalle loro performance è nato un CD. L’esperienza, nonostante l’inizio caotico e complicato, ha portato ad un mix interessante di rap e musica elettronica – considerati dai giovani la “loro” musica – e di musica folk. Si trattava di ragazzi con background familiari traumatici, caratterizzati da deprivazione culturale e dall’assenza di percorsi formativi significativi. Nessuno di loro aveva esperienze pregresse di musica live.
La difficoltà iniziale era trovare coi ragazzi punti di connessione. Ha sicuramente aiutato il fatto che i musicisti avessero la stessa età dei ragazzi e fossero percepiti come distanti dall’establishment e dalla direzione del carcere: “ci trattavamo come fossimo persone normali, non come criminali. Erano gentili e ci davano fiducia: voglio dire, per quanto ne sapevano, potevamo rompergli gli strumenti da un momento all’altro. Fare musica con loro ha cambiato la nostra percezione del tempo. Ci sembrava di essere da un’altra parte“.
Ci sono stati anche momenti di tensione. All’inizio si è trattato di coinvolgere i ragazzi all’interno del progetto, di capire quali erano le loro aspettative. I musicisti hanno dovuto chiarire che esistevano dei confini e delle regole, prima di riuscire a stabilire una relazione empatica coi ragazzi. Si è dovuto stabilire un nuovo linguaggio, specificando cos’era permesso dire e fare e che cosa no. Il laboratorio doveva esser ben strutturato, perchè era un’occasione potenziale per scatenare casi di bullismo: “c’era una ragazza a cui non piaceva il suono di uno strumento, che ricordava molto il verso di un uccello. Diceva che la spaventava. Un’altra l’aveva presa di punta, e continuava a ripetere quel suono all’infinito, per infastidirla”.
Ci sono stati anche dei conflitti razziali. I ragazzi neri non apprezzavano che i ragazzi bianchi facessero propri alcuni pezzi di musica rap, perchè consideravano che fosse “un’appropriazione indebita” della loro musica e del loro modo di esprimersi: “Suonavano quella merda rap. E io ho pensato – ma vaff…Ero nella mia cella e questa cosa mi faceva davvero ammattire. Immagina un nuovo progioniero, bianco. Tutta la sua vita trascorsa ad ascoltare rock. Mentre io ho sempre asoltato rap. Tu ascolti rock e io rap. Senza offesa, ma per una cosa così qui dentro si viene bullizzati. Qui ascoltiamo tutti la stessa musica. Ma i bianchi…quando sono fuori di qui non ascoltano mai rap, e poi entrano qui dentro e fingono di esser come noi neri, mettono su la musica rap e vanno in giro coi pantaloni col cavallo basso. Questo mi manda fuori: perchè le persone vengono in prigione e si comportano in modo diverso da quello che sono?”.
Piano piano i ragazzi hanno preso gusto a mescolare le loro forme espressive con gli strumenti dei musicisti e i conflitti si sono appianati. Hanno iniziato a creare del rap con gli strumenti, e questo per loro era una novità assoluta: niente software, ma percussioni e batteria.
Il progetto ha richiesto una gran flessibilità ai musicisti nello svolgimento del laboratorio:
“C’era una ragazza che non partecipava e stava tutto il tempo a guardare il cellulare. Un giorno, era intenta in una discussione su Facebook, e i musicisti le han chiesto di che cosa stesse discutendo in modo tanto appassionato. Quindi, hanno creato insieme ai ragazzi una canzone che prendeva spunto dalle parole scambiate in quella conversazione online”.
“Ad un certo punto uno dei musicisti si è messo a suonare e qualcuno ha riconosciuto la canzone. Gli hanno chiesto cosa stesse suonando, e lui ha risposto che era un pezzo di Bob Marley. Alcuni ragazzi hanno iniziato a parlottare tra loro, poi gli han chiesto se fumasse marijuana. Il musicista non ha risposto, ma la risposta gli si leggeva in faccia, e i ragazzi hanno sorriso.”
Un’altra sfida è stata posta dal concetto di musica: i ragazzi identificavano la musica con lo star system, con il riconoscimento sociale, la fama e la celebrità, mentre i musicisti cercavano di far vedere loro la musica come una possibile fonte di benessere. Il fatto che il laboratorio portasse alla produzione di un CD che restava ai ragazzi ha spinto molto la motivazione dei partecipanti:
“Mi faceva sentire come se finalmente avessi conseguito qualcosa, come se stessi andando da qualche parte. Quando uscirò di qui prenderò lezioni di canto e andrò in una sala di registrazione.”
“Questo laboratorio mi ha portato a darmi fiducia. Sono timido e non riesco a parlare in pubblico. Ma rappare di fronte alla gente è diverso…mi motiva davvero. E riascoltare le nostre canzoni mi ha reso felice. Sai, alcuni di quei musicisti avevano davvero talendo ed è stato un onore fare una cosa con loro”.