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Cosa ha reso l’uomo in grado di dominare il mondo e cosa c’entra questo con il teatro?

Alberto Pagliarino, responsabile dell’Area Culture & Communities di SCT Centre, ricercatore universitario e attore, è intervenuto al primo workshop della Scuola di Formazione Avanzata di TSC™. Ecco parte del suo intervento.

70.000 anni fa l’Homo sapiens sviluppa una capacità che lo renderà capace di dominare il mondo. La capacità di articolare un linguaggio unico e complesso e di dare vita a finzioni. Come racconta Yuval Noah Harari, fino ad allora l’Homo sapiens non è molto diverso dal Neanderthal, che anzi si distingue per una maggiore forza fisica. Come ogni altro animale sulla terra il Sapiens vive un unico livello di esistenza: quello del mondo reale. Grazie a questa “rivoluzione cognitiva” il Sapiens comincia a vivere un doppio livello di realtà, a immaginare storie e miti di cui nella realtà non si ha esperienza e di condividere queste storie attraverso il linguaggio, dando vita a narrazioni comuni e condivise. L’Homo sapiens, a un certo punto della sua evoluzione, è in grado di vivere una realtà allo stesso tempo reale e immaginaria.

Questo ci ha permesso di dominare il mondo: l’immaginazione e il linguaggio.

Gli ominidi sono in grado di formare gruppi di circa 50-70 individui senza problemi, in alcuni casi si può arrivare a una media di 150 unità, il cosiddetto numero di Dunbar, dal nome del suo scopritore. Dopo questa soglia la comunità si disgrega e forma nuovi gruppi separati con nuovi leader.  La rivoluzione cognitiva ci ha permesso di sfondare il tetto della 150 unità attraverso la creazione di miti che hanno dato vita a principi e valori condivisi.  Circa 70.000 anni fa un gruppo di esseri umani lascia l’Africa e procede nella colonizzazione del resto del mondo, in poche decine di migliaia di anni si diffondono in Asia, Europa fino ad arrivare all’Australia e, 16.000 anni fa, a stabilirsi anche nel continente americano. Mentre tutte le altre specie umane si estinguono, i Sapiens proliferano, sono capaci di organizzarsi in comunità di centinaia di individui, di scambiarsi informazioni complesse, di creare socialità attraverso il “pettegolezzo”.

La capacità di immaginazione ha permesso all’uomo di creare narrazioni condivise in grado di generare punti di riferimento comuni. Così gli uomini hanno potuto riconoscersi come parte dello stesso gruppo, pur non conoscendosi direttamente. Non è fondamentale conoscersi direttamente per coordinarci, se abbiamo a disposizione una legge o un dio in cui entrambi crediamo e che ci impone di seguire un certo comportamento o di perseguire obiettivi comuni, come ad esempio la costruzione di una piramide. E questo ha portato alla costituzione di gruppi via via sempre più grandi, a superare il limite dei centocinquanta individui per arrivare a gruppi di migliaia, fino a creare le prime città in Mesopotamia, gli imperi, le nazioni, gli stati. Tutto questo grazie a ciò che alcuni sociologi hanno chiamato costrutti sociali, realtà immaginate che come tali in natura non esistono, ma sono la creazione di gruppi di uomini accomunati dalla cultura – cultura in cui si riconoscono, in cui credono. Ogni costrutto sociale esiste solo perché è immaginato e condiviso.

L’immaginazione e la capacità di rappresentare ciò che immaginiamo, dunque, stanno alla base della costruzione delle società. Ma l’immaginazione non regge senza un collante.  Senza la fiducia, noi non esisteremmo. Una storia esiste e diventa reale nel momento in cui un gruppo di persone ha fiducia che quella storia sia vera: è per questo, ad esempio, che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo esiste. La Dichiarazione racconta principi in cui crediamo collettivamente e questa fiducia collettiva rende questi principi vivi. La fiducia e l’immaginazione – che crea storie e cementifica l’identità di un popolo – permettono a un gruppo di riconoscersi come tale e dire: “io esisto”.

Le società in effetti si creano con i legami di fiducia tra gli individui che compongono il gruppo; se non ci fosse la fiducia, le società si disgregherebbero. Molti antropologi si sono interrogati su come abbia fatto l’uomo a creare e tenere vivo questo collante. Esiste un paradigma che ha portato alla creazione delle società? Marcel Mauss, antropologo degli anni ‘50, ci dà una risposta: il paradigma con cui l’uomo ha creato questa socialità è il dono. Molte comunità fondano i legami sociali sullo scambio di doni. Mauss comparò varie ricerche etnografiche, svolte da altri ricercatori presso alcune tribù del nord d’America, presso i Maori della Nuova Zelanda o alcuni abitanti delle isole Trobriand nell’Oceano Pacifico. Scoprì che lo scambio dei beni era uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane. Il dono si basa sul principio della reciprocità: implica un dare, un ricevere – accettare l’oggetto – e un ricambiare. Chi riceve, ha l’obbligo morale e sociale di restituire, ma modi e tempi non sono rigidi. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie per il donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri.

Chiunque di noi ha sperimentato il vincolo introdotto da un dono ricevuto in occasione del proprio compleanno: un amico ci fa un regalo, e noi, quando arriva il suo compleanno, ci sentiamo in dovere di ricambiare, e quindi a nostra volta facciamo un dono. Il dono è molto diverso dal baratto, uno scambio contingente di beni dello stesso valore, perché il dono può essere restituito nel tempo e non prevede che si restituisca esattamente quanto è stato dato. I doni sono scambi gratuiti e coatti, hanno un aspetto forzato perché chi riceve si sente in debito e sente l’impulso a restituire. Il dono può unire una comunità molto grande creando vincoli e legami tra i suoi membri. Può creare legami molto forti fra famiglie. Chi non restituisce il dono è come se non accettasse il legame sociale creatasi con il donatore, come se lo rifiutasse, e si pone al margine della società. La dinamica del dono è supportata da un immaginario e da una narrazione condivisa che la sostiene.

Che la società sia veramente nata dal paradigma del dono o meno, ciò che per noi conta è che la dinamica del dono è una dinamica reale, che crea socialità e che è ancora presente nella nostra società, anche se su piccola scala. Si pensi alla banca del tempo, o al volontariato: sono esempi di come l’uomo metta in circolo socialità attraverso uno scambio di doni e competenze. Ma la dinamica del dono non è né buona né cattiva e viene utilizzata anche al fine di rafforzare legami in contesti criminali. Si pensi alle azioni di scambio di doni – e di favori – che si creano nel contesto mafioso, ad esempio. Così la dinamica del dono che crea socialità può sussistere anche all’interno di una società dove domina un altro tipo di paradigma sociale. La nostra società occidentale, ad esempio, si basa sul paradigma dell’individualismo metodologico e sul contratto.

Una società basata esclusivamente sul dono crea fra le persone legami molto forti ed è una società vincolante, in cui la libertà individuale viene dopo la volontà collettiva. Anche i legami feudali ricreavano la stessa logica: il rapporto tra vassalli e valvassori, e tra padrone e servi della gleba che coltivavano la terra in cambio di ospitalità e protezione sul suo terreno.

Adam Smith 300 anni fa rivoluzionò il modello sociale basato sul vincolo. Sosteneva che non sarebbe durato, che l’uomo aveva bisogno di liberarsi dai legami vincolanti. Come? Vivendo in una società basata sul contratto: le prestazioni sono regolate da un contratto tra le parti. Il contratto detta la dinamica di relazione e ha una scadenza, può essere rescisso. Il contratto non crea necessariamente vincoli sociali tra fornitore e cliente, tra chi vende e chi compra. Il contratto rende il contadino libero. I legami diventano più fragili, meno vincolanti e rischiosi. La nostra società occidentale a livello macro funziona su questa idea declinata in diverse varianti, fino alle posizioni più forti che hanno portato a dire: “non esiste una cosa che si chiama Società, esistono solo gli individui e le famiglie”.

Se, nella nostra società, la dinamica del contratto ha vinto, all’interno di piccoli gruppi la logica del dono può comunque continuare e può esprimere forti potenzialità. Ognuno è inserito all’interno di un sistema di reti: più relazioni si hanno, più reti si hanno, più si è in grado di agire in una logica di dono e controdono, più aumenta la nostra possibilità di raggiungere i nostri obiettivi. La teoria di Mauss viene ripresa come spunto negli ultimi decenni da diversi economisti sociali, che chiamano questo potenziale capitale sociale riconoscendogli un valore economico: il valore di legame (Alain Caillé). Il capitale sociale è la somma di tutte le relazioni che fanno capo a ogni singolo individuo e che lo facilitano nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Le reti di relazioni, quindi, hanno un valore economico, perché più contatti si hanno più, potenzialmente, si riesce a raggiungere i propri obiettivi; per questo gli economisti parlano di capitale sociale. […]

Il sociologo statunitense Mark Granovetter analizzò i tipi di legami interni alle reti di relazioni degli individui, e li distinse in legami forti (legami familiari, amici) e legami deboli (conoscenze). I legami deboli sono quei legami che permettono di espandere la rete e di connettere diverse reti tra loro. I legami forti, infatti, da un punto di vista funzionale non sono essenziali per far lavorare una rete, perché tendono a creare triangoli. Se ci riflettete è molto probabile che i miei due migliori amici si conoscano fra di loro. Se da un giorno all’altro io scompaio i miei due amici rimarranno in contatto e la rete continuerà a funzionare. Se da una rete o da un insieme di reti tolgo un legame forte, è molto probabile che rimangano in piedi altri legami forti che uniscono le stesse persone fra loro, ma se si toglie un legame debole, una parte della rete viene definitivamente tagliata fuori.

Immaginario, fiducia, narrazioni condivise e legami vincolanti: sono gli ingredienti per la costruzione di una comunità.

Il teatro sociale e di comunità (TSC) fa questo. Lavora sulla creazione di narrazioni condivise, reti fluenti e legami virtuosi, rafforzando le dinamiche di fiducia su un territorio. Crea legami attraverso riti teatrali, costruisce con le persone le narrazioni che appartengono alla loro comunità e in cui si possono riconoscere, “dà un nome” a quella determinata comunità, e crea eventi teatrali di apertura verso l’esterno di quella stessa comunità che le permettono di affermare: “io esisto”.

Il teatro di comunità aiuta a costruire legami virtuosi, ma non parte dal nulla: parte dalle relazioni e dalle narrazioni che una determinata comunità ha già creato, in modo da poter rafforzare ed espandere i legami tra gli individui. Il TSC™ fa emergere le risorse della comunità, sia in termini di capitale sociale che in termini di competenze della comunità, le tira fuori come pepite da una miniera: gruppi che già fanno arte e che hanno a disposizione spazi, tempo, competenze, ecc.

Per lavorare con le comunità, se non si conosce bene il territorio, si ha bisogno di facilitazioni: di trovare i punti di riferimento, di parlare con coloro che hanno molti legami deboli sul territorio e renderli protagonisti del processo di lavoro: queste persone sono i referenti di comunità.  Persone che hanno spesso un ruolo attivo in quel quartiere e che hanno molti legami di fiducia, che conoscono la storia e le storie del territorio e che quindi godono del rispetto e delle fiducia di almeno una parte della rete: il parroco, una persona che fa molto volontariato, il referente di un’associazione che lavora con le famiglie, ecc. Prima di tutto gli attori che intraprendono un lavoro di TSC™ devono trovare questi referenti, condividere un progetto e meritarne la fiducia. Questo permette non solo di allargare la porzione di comunità con cui fare il lavoro di TSC™, ma anche di capire su cosa incentrare il lavoro di comunità, su quali temi c’è più fermento o sensibilità, in modo da offrire alla comunità un percorso che la porti verso un obiettivo davvero condiviso. In modo da inserire i cittadini in un percorso di riscoperta di ciò che sanno fare e che sono, per poi renderlo manifesto durante un evento di comunità in cui si fanno protagonisti degli spazi in cui vivono e della loro comunità.