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E’ difficile pensare di riassumere il festival di Santarcangelo dei Teatri 2020 in poche parole e riuscirne a comunicare la complessità e bellezza del contenuto di cui è intessuto. Parlerò quindi a partire dal piccolo scorcio del mio vissuto e prenderò in prestito estratti dagli incontri avuti. E’ necessario partire dalle parole di Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, artisti (MOTUS) e curatori dell’edizione 2020 e 2021 del Festival, che ci regalano un quaderno pieno di appunti, tracce, riflessioni e ricerche parte del processo di costruzione di un festival che viene scritto con la stessa adrenalinica tensione di quando si compone un nuovo spettacolo. Per me, operatrice di TSC con esperienza nella costruzione di eventi di comunità, queste parole risuonano molto e mi ricordano il grande lavoro di drammaturgia e cura delle relazioni sul territorio che rende la realizzazione di un evento un atto artistico di per sè. E’ emozionante avere questo tomo tra le mani, pieno di spunti e descrizioni di ciò che sarebbe dovuto essere, ma che ha dovuto sconvolgersi ed adattarsi velocemente alle nuove normative: un festival che si è salvato dall’incertezza della pandemia ed è riuscito ad andare in scena in forma emergenziale, con un format ridotto di 5 giorni d’estate – ma che continuerà ad essere, fino a Luglio 2021, in forma diffusa nel tempo e nello spazio. La sovrabbondanza di contenuti riflette pienamente la lunga gestazione dell’edizione originariamente ideata, che si sarebbe dovuta chiamare Far Out, un’espressione slang americana che significa eccentrico, strano, bizzarro, fuori misura. I curatori avevano immaginato questa edizione di Santarcangelo come una trama complessa di bolle progettuali, autonome eppure interconnesse tra loro; la necessità di applicare una visione globale su progetti, pensiero, persone, culture, emerge in maniera ancora più lampante nel presente colpito dalla pandemia, globale anch’essa. Perchè da Far Out a Santarcangelo 2050? Si tratta di un omaggio al “futuro fantastico” di Asimov (nato esattamente 100 anni fa) ed alle sue visioni positiviste di questo periodo storico, ma anche di un invito a riflettere su questi 50 anni di festival passati (quest’anno si festeggia infatti l’anniversario) e sulla ripartenza: “ripartiamo dagli scenari del nostro paese stanco e incattivito, per meglio mettere a fuoco a distanza. Con gli occhi che bruciano.“
Decido di partire da una domanda allo stesso tempo semplice ed enorme: cos’è per te comunità? In questo mondo di interrelazioni, sono curiosa di collezionare punti di vista su questa parola chiave che per me racchiude il senso del teatro. Chiara, una volontaria, mi dona l’immagine di due insiemi matematici, uniti da una intersezione; Vladimir, parte dello staff, la descrive come energia che gira tra le persone e che, trasmettendosi, viene amplificata; Giulia, che conosco attraverso l’ufficio stampa ed è parte attiva dello staff del festival, descrive la comunità come un insieme di persone che collaborano per l’obiettivo comune del Festival e sottolinea come questo crei un legame profondo che rende i singoli attori della comunità disponibili ad andare oltre il proprio ruolo ed i propri limiti.
Andare oltre i limiti, usare il limite come spunto creativo: questa è sicuramente la sfida che il teatro ha dovuto – e saputo – cogliere nel periodo di rapidi cambiamenti della pandemia. Personalmente mi ricorda l’esperienza di organizzazione eventi in contesti di cooperazione internazionale, come quando in Etiopia mi trovai a ideare una parata per le strade della città senza sapere se sarebbe scoppiata di lì a poco una guerra civile o quando due giorni prima di un evento di comunità saltò la corrente elettrica in tutta la città. Si fece sempre e comunque, e si scoprì qualcosa di nuovo.
Così, a Santarcangelo, la prima cosa che noto e che rende esplicito l’intento di “allearsi, con-divenire, intessere nuove forme di parentela, inventare nuovi assemblaggi multispecie” è la trasformazione della Piazza, dello Sferisterio, del parco di Imbosco in nuovi palcoscenici naturali – un passaggio probabilmente obbligato dalla norma, ma che ritrova un contatto con la Natura viva. Ciò che siamo abituati a percepire come sfondo, si trasforma in prima protagonista di qualsiasi performance, in dialogo continuo con gli/le artist_: al silenzio di scena si sostituisce il canto delle cicale; in risposta ad una battuta, una foglia cade. Come sarebbe potuto accadere tutto ciò in sala? Nel nero del teatro ci portiamo l’eco della realtà naturale; ora gli/le artist_ si fanno tramite tra il pubblico che assiste e un qualcosa di più grande che partecipa all’accadimento. E così avviene il rito, più potente che mai.
Penso ad esempio alla presenza magnetica di Cherish Menzo in Sorry But I Feel Slightly Disidentified…, diretta da Benjamin Kahn in un’esperienza caleidoscopica e ammaliante che percorre modelli legati a genere, rappresentazioni, stereotipi, attraverso trasformazioni improvvise, uno sguardo che responsabilizza lo spettatore, che mi ricordano il motto di Santarcangelo 2015 “Guardare non è più un atto innocente“; ma in fondo, lo è mai stato?
Cheris Menzo con il solo uso del corpo e delle sue infinite capacità trasformative, ci conduce a una questione strettamente politica: quella dei confini, reali, sociali ed emozionali. Ma per farlo, passa per il concetto di esotismo, a partire dal costume folkloristico che la ricopre interamente e con il quale appare lontana, in mezzo al parco; cammina lentamente verso di noi e verso il palco-passerella, accompagnato dallo stridere insistente del bosco che ci circonda. La svestizione graduale culmina in una oggettivazione del corpo, corpo nero, corpo donna, in quel momento circondato da un pubblico interamente bianco (non fosse per una sola ragazza), in particolare da uomini anziani bianchi – il che mi mette in un profondo stato di disagio. Dall’erotismo Cheris Menzo scoppia in una risata, poi sembra che mi guardi dritta negli occhi. Accolgo con emozione la fragilità che mostra fiera.
A sole già calato torno nello stesso parco, questa volta per assistere a Gabriele Portoghese che, in un anfiteatro di alti tronchi va in scena con Tiresias, diretto da Giorgina Pi/ Collettivo Angelo MAI BLUEMOTION – un rito che invoca il vecchio, povero, vagabonda, sporco, trans, in mezzo alle cose, sempre imprevisto Tiresia, seguendo le orme poetiche e sonore da Hold your Own di Kate Tempest, poetessa e rapper londinese. Gabriele Portoghese salta di registro in registro e ci trascina in un vortice di mutamenti e di vite diverse che si scontrano, aprono squarci emotivi, ci cullano sulle note di un canto e di chitarra elettrica – e il bosco con lui. Un artista che si fa spazio di confine, di incontro. Ogni cosa, qui nel grande Parco che accoglie spettacoli e spettatori distanziati, sembra farsi terreno fertile di ibridazione, invito alla nascita, all’esplosione. All’emergenza intesa come atto dell’emergere.
Di un altro tipo di contemplazione si nutre lo spettacolo Family Affair. Il format, che il collettivo Zimmerfrei porta in giro per l’Europa dal 2015, vede una prima fase di call pubblica in cui l’ente organizzatore raccoglie delle famiglie interessate a partecipare ad una esperienza teatrale, che consiste in un momento di intervista e riprese in casa, tre settimane di prove e le date di replica. Incontro Anna De Manicor e Massimo Carozzi per un caffè e per parlare di questo spettacolo, che nacque da una richiesta molto chiara di un format che fosse partecipativo, multimediale e con una tematica sociale. Non è interesse della compagnia fare un teatro che indaghi nella psicologia, nè che abbia intenti terapeutici; hanno scelto il tema della famiglia perché realtà molto rappresentata che può essere reinventata, scardinata dagli schemi classici. L’antropologia è una delle discipline decisamente presenti a questo Festival, quindi mi pare d’obbligo sottolineare come, proprio in questa scienza delle relazioni, la parentela sia uno degli argomenti cardine – poichè la maggior parte delle relazioni umane sono ancora codificate da relazioni parentali. Per questo si studiano, caso per caso, i termini di parentela, le regole di discendenza, filiazione e alleanze. E attraverso Family Affair, gli Zimmer Frei permettono sia alle famiglie coinvolte che al pubblico di applicare quello sguardo oggettivo e aperto all’alterità con stupore proprio del ricercatore sul campo: tutti i componenti delle famiglie sono sul palco, il luogo di incontro tradizionale emiliano viene rievocato tramite la descrizione sullo schermo del trebbo o trebb che significa “ritrovo, raduno, veglia”: uomini e donne, di una famiglia allargata o magari abitanti di uno stesso cascinale, si radunavano allo stesso tavolo ed iniziavano a raccontare fatti e pettegolezzi. A volte veniva invitato anche un fulèsta o cantastorie. Così i numerosi partecipanti alla performance stanno, seduti, scambiandosi sguardi. E noi con loro. Un bambino di pochissimi anni sgambetta teneramente scoordinato per tutto lo spazio a sua disposizione, mantenendo una tensione tra i presenti che lo guardano e “parano” le possibili cadute. Lentamente appare sullo schermo il viso di uno dei protagonisti; tiene gli occhi chiusi, è in casa sua, mentre gli altri membri della famiglia si muovono attorno come se nulla fosse. In scena, sono loro che a microfono recitano le sue parole. Ecco la magia di questa struttura tecnica che è così semplice e potente al tempo stesso: sentirsi con la voce degli altri dà luce ad un profondo moto di consapevolezza, permette di guardarsi e sentirsi attraverso la voce e gli occhi degli altri. Un movimento di straniamento che permette ai partecipanti di comprendere il processo in cui sono inseriti e creare un forte senso di empatia non solo verso i propri famigliari, ma verso le diverse e variopinte famiglie che prendono parte alla performance. Ogni aneddoto, ogni racconto, risponde alle domande da cui la ricerca prende piede: Quanti tipi di famiglie esistono? Cosa chiamiamo famiglia? Quanti tipi di racconti si producono all’interno di una stessa famiglia? Di quante famiglie facciamo parte?
Il ritratto della famiglia contemporanea – e quindi della società, da un punto di vista antropologico – di questo piccolo tratto di Emilia-Romagna è un ritratto pieno di ibridazioni culturali, di gioco, di incertezze. E’ spiazzante, ad esempio, sentire una bambina recitare le parole della madre che raccontano di quella gravidanza imprevista, sentirla discutere con il padre che al tempo vacillò. E’ curioso scoprire che a Santarcangelo abita un uomo Sufi, che si è sposato con una donna proveniente dal Marocco, conosciuta online da un suo amico. Pongo agli artefici di questo teatro documentario, le domande-miccia d’ispirazione alla drammaturgia del Festival: E’ davvero impossibile immaginare la fine del capitalismo? o meglio, Esiste un mondo a venire? Per Massimo Carozzi, di futuri ce ne sono tanti: si vive nel presente, il futuro è tra mezz’ora.
Anche per Sara Leghissa, performer del collettivo STRASSE, il futuro è impossibile e l’invito è quello a stare nel presente. Sara, che da sempre si muove a suo agio nei territori di confine, porta a galla paradossi e contraddizioni della nostra società attraverso sottili provocazioni, nella conferenza pubblica temporanea Fake Uniforms, che esplora alcune pratiche illegali presenti nella nostra vita quotidiana. Il testo prende forma su manifesti che Leghissa affigge, vestita di una falsa uniforme da addetto ai lavori, ed è sviluppato a partire da interviste, pratiche utilizzate da movimenti, attivisti e attiviste in diverse parti del mondo, che consentono di aggirare la legge senza trasgredirla. Questo festival chiede chiaramente di prendere posizione e la performance Fake uniforms esplicita più che mai questo intento, al confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, mettendo in discussione i concetti di morale, lecito e giusto. Sara Leghissa non si volta mai verso di noi, concentrata nel attaccare parole che si trasformano in frasi e prendono nuovo senso ogni volta che si aggiunge un tassello; alla sua sinistra, il volto di Matteo Salvini sorride nella bacheca della piazza; sotto, una calamita blu tiene un foglio A4 con scritto a caratteri cubitali: “TANTI BACIONI”.
E’ ora di prendere posizione, creare alleanze e nuove forme di resistenza. Per questo a Santarcangelo è passato anche Il Campo Innocente, una comunità di artist* e lavorator* dello spettacolo che pongono la questione della violenza, del sessismo e della precarietà nel mondo artistico, con un tavolo aperto di immaginazione (transfemminista) per creare un percorso di autoinchiesta collettivo e capire cosa sta accadendo in era post-pandemica a artist, tecnic, lavorat dell’arte dal vivo, con l’idea di mappare pratiche, punti di vista, posizionamenti e far emergere ciò che spesso resta invisibile.
Trovo che molto di quello che ho vissuto a Santarcangelo 2050 sia riassunto molto bene da Sara Leghissa nel suo raccontarmi cos’è dal suo punto di vista comunità: “ è qualcosa che assomiglia a questa idea: sentirsi parte di un’esperienza condivisa, un’esperienza che ha a che fare col tempo/ durata, e con lo spazio. Lo spazio è analogico e digitale: possiamo essere una comunità ed essere geograficamente lontanissim*. Possiamo essere una comunità nella distanza. Il luogo dell’incontro è anche astratto: i sogni sono spazi comunitari.
Possiamo incontrarci nell’assenza: sento la mancanza perché sono connessa nell’assenza e nell’impossibilità dell’incontro.
E’ una famiglia espansa che si riconosce in elementi comuni e che si autodetermina a seconda del contesto. Abbatte il modello classico di famiglia, crea altri modelli nuovi legami si trasforma continuamente e impara continuamente da se stessa e nella relazione con ciò che non è e con ciò che sta intorno, fuori, oltre.
La comunità ha a che fare con la cura: dentro la comunità la gestione del conflitto, del piacere, della riproduzione è collettiva. Cura reciproca.
E’ difficile stare nella comunità: mi aiuta a gestire le mie risorse in modo autonomo perché più costruisco la mia solidità, legata ai miei bisogni, e più posso mettermi a disposizione della comunità.
A volte è un raduno temporale, effimero: una taz* è una comunità che si addensa guidata da un’intenzione comune, condivide un’esperienza e poi si dissolve. Il mio lavoro artistico è molto vicino ad una taz. Arriva, scardina delle coordinate, riposiziona le presenze, i ruoli e le diverse possibilità dello stare in quello spazio, e scompare.”
(*da T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism, 1991, opera dello scrittore e anarchico Hakim Bey)
“Pensare, pensare, dobbiamo” scrive Donna Haraway citando Isabel Stengers e Vinciane Despret, nel suo libro Staying with the trouble, per “sopravvivere su un pianeta infetto”. Ed è proprio questa l’anima del Festival. Secondo il suo primo direttore artistico Piero Patino infatti, Santarcangelo dei Teatri continuerà a durare perché dal principio è stato pensato come un “fare teatro in mezzo alla gente, per la gente. Non per farla divertire, ma per farla pensare.” Ci auguriamo quindi che la ricchezza di domande e punti di vista offerta dal festival sia colta non solo dai suoi visitatori – si suppone già dotati di buone intenzioni – ma anche da chi ogni anno ci si trova per forza di cose in mezzo, ed osserva non senza stupore le provocazioni degli artisti. Come un bambino che in piazza, seduto di fronte a Sara Leghissa in versione attacchinaggio, chiede: “Mamma, mamma! Cos’è gay?” e la comunità risponde, ponendo speranza in quel futuro fantastico che sono i/le bambin*.
Per approfondire:
https://www.santarcangelofestival.com/